lunedì 6 febbraio 2012

La linea di minor resistenza, Carlo Fruttero.


Thathari, su ses de Frealzu, duamizas e doighi.

Puru chi custu blog est unu blog de cultura in limba sarda, no resistimus a su disizu de fagher connoschere a sos battor lettores e amantiosos de cultura una poesia chi nos at toccadu su coro pro sa capazidade de rappresentare cun d'una allegoria de gherra s'esperienzia de sa vida nostra, unu campu 'e battaglia, una pelea continua, una lotta chena pasu, un'impresa epica.
Ana a perdonare sos battor amantiosos de limba?
Puru s'italianu est una limba maravizosa ed est, issa puru, limba nostra.

Su poema est apparfidu in su cotidianu "la Repubblica" da die poi de su funerale de Carlo Fruttero, sapadu su 21 de bennalzu passadu.

Su titulu de "la Repubblica" fit: "Ballata epica per un congedo". Su poema in forma de liberu est bistadu distribuidu a contu de sos familiares e pro espressa volontade de s'iscrittore torinesu in treghentos copias a sos amigos e parentes.

No ischimus si su poema at a esser pubblicadu torra, ma creimus chi emmo, ca su poema est troppu bellu pro chi no siet connoschidu e pubblicadu torra.

Custa duncas est un'antizipazione.

LA LINEA DI MINOR RESISTENZA 

di Carlo Fruttero


Lungo la linea di minor resistenza
siamo in marcia da gran tempo, stanchi
ormai, ingobbiti e tuttavia grati, nell’insieme.
Di noi nessuno, credo, più ricorda quando cominciò
né di dove, esattamente; un piccolo scarto forse,
una priva deviazione a evitare vampe lontane,
un tronco di abete o faggio a riparo, un muricciolo di
pietre,
la breve spada per tre quarti nel fodero, l’occhio
attento,
l’orecchio ben spalancato al fragore della battaglia
laggiù. Non sempre era facile seguirla, la linea.
Spariva oltre un torrente ringhioso, si perdeva
nell’incavo di fossi cari
al crescione e a limacciose lumache senza guscio. O
perchè
cadeva brusca la notte. Che fare adesso? Stavamo lì
attorno a magri fuochi di sterpi, malamente
accampati,
inquieti, la paura come rugiada sui nostri mantelli.
L’alba svelava molteplici insidie
ovvie a chiunque. Quel bosco troppo fitto troppo
buio,
quella gola tortuosa fra pareti di roccia, quel
ponticello nudo e sottile
sui risucchi del fiume, la palizzata sbilenca dall’aria
indifesa, un convergere di uccelli neri sulla radura a
oriente,
l’ululìo di grossi cani tra ruderi anneriti...
Avevamo imparato, ci tenevamo a distanza
avanzando a ginocchi piegati,
schiena curva in silenzio. Ma la linea di minor
resistenza
ci sarebbe servita soprattutto nello smeraldo di un
prato
prima di metter piede su dolcissime chiazze
di mughetti, di primule. Finalmente! Lo slancio
era invincibile, ci lasciavamo cadere su quel manto a
braccia aperte,
lo sguardo ozioso, socchiuso, scivoloso
su vaghe ramaglie musicali in un accenno di vento.
Api, anche. E una libellula incerta nel battito d’ali
trasparenti.
Non sembra vero, diceva qualcuno. E infatti
non lo era. In mezzo a noi languidi
- appena un fruscio, un taglio nel bisso –
precipitava il primo giavellotto. Il nemico era lì
tutto attorno. Bisognava fuggire, ritirarsi, più di una
volta
combattere sopprimendo il tremito, richiamando
l’impigrito furore
a denti stretti, l’urlo pronto a scoppiare, il braccio
mulinante a caso nella mischia. Belve, tutti.
Nel corpo a corpo le corazze cozzavano
elmi e teste volavano, o mani tranciate, rosse budella,
uno scroto divelto. Vincevamo. Perdevamo.
Lasciavamo
nell’orbita di quel falso idillio morti e feriti,
pezzi di noi, rantoli d’agonia, inutili invocazioni.
E riprendevamo, chi ancora poteva, , a marciare lungo
la linea di minor resistenza, ritrovata
fra le stoppie dietro una siepe irta di spine o
nettissima
a tagliare negletti campi interminabili.
Fatica, passo dopo passo. Tedio, gesto dopo uguale
gesto.
Il farro da triturare, l’acqua da cercare, cunei e chiodi
da piantare, bacche racimolate, rari frutti, il coniglio
selvatico, l’anatra di passo, il cinghiale a volte, da fare
a pezzi
sulla fiamma. Così tiravamo avanti, il giorno e la
notte,
la notte e l’inevitabile giorno. C’era chi crollava
in fondo alla fila dopo settimane di sabbia,
mesi di funesta palude, restava ai margini, insepolto.
In altri prevaleva l’impazienza, tentati da un lume,
caldo all’orizzonte, una finestra presunta, un
villaggio
aperto al saccheggio. Disertavano, non ritornavano.
O chi ancora
cedeva a un invito di smalto azzurro tra due soavi
colline
gettava lo scudo incurante dei nostri richiami,
perduto. E noi
sempre ancora a marciare, ancora talvolta a dover
combattere,
polverosi, ossuti, la daga incrostata, le frecce
scarse nella faretra. Ma vivi, grazie alla linea
di minor resistenza. Ora ne vediamo all’incirca la
fine,
oltre quegli ultimi cardi e più in là lo stagno
immobile.
E ci contiamo, noi superstiti attorno a braci
decrescenti.
Ci rallegriamo, la voce arrochita, prendendo spesso
fiato.
Qualcuno tenta le prime notte di un canto, presto
scoraggiato.
Una lunga fuga, dice un altro, tra nebbie e sbiechi di
gelide piogge
e la mazza del sole, soltanto una fuga è stata tutta la
nostra marcia
per lancinanti strappi, disonorevoli omissioni. Ma
non è stato proprio così, sempre così.
C’erano tratti, anche lunghi, di pur guardinga
spensieratezza, di euforico abbandono, l’ombra
del pericolo rimasta indietro, quando ci pareva
di correre più in fretta del sole, della vita.
Un altro ride senza molta allegria,
sputa sui carboni
un suo dubbio di buffone: la linea di minor resistenza
non è mai esistita,
ce la siamo inventata per dare un senso al nostro
andare,
una direzione, un’idea di minimo controllo
su quanto facevamo, su quel vano soffrire, quel
cadere
e poi ripartire a disperdere il vuoto, in qualche modo.
Mai esistita, ripete il guitto. Sarà. Noi lo lasciamo dire
perché alla fine non ha più molta importanza
capire come ci siamo veramente arrivati, allo stagno
color piombo
là dietro.

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